Il fascino di un viaggio, suggerivo un po'
di tempo fa ripensando L'invitation
au
voyage di Baudelaire[1],
è rappresentato dalla «nostalgia di un paese mai visto», dalla
curiosità, dal piacere che si nutre nell'attesa di giungere ad una
destinazione, dall'intento di esplorare (di cercare) un vero
paese «dove è dolce respirare la vita»[2]. Ma anche da una speranza, da un desiderio
di trovare, dopo una lunga (o breve) peregrinazione alla ricerca di qualcosa.
Forse semplicemente di ritrovarsi, di riscoprirsi (e ripensare alla propria
fantasia), di rileggere il proprio corpo a corpo con la natura delle cose e di
costruire un taccuino interiore, di creare un diario intimo – e proprio perché
intimo, realmente prezioso.
Sin dai suoi primi progetti e lavori, Daniele Girardi ha riposto fiducia nel in questa condizione sottile – la condizione del viaggiatore e dell'esploratore, più precisamente – per produrre itinerari estetici la cui natura formale si nutre di prefissi climatici, ambientali, socio-antropologici.
[1] Cfr. A. Tolve, Il potere infinito delle
eterotopie, in «arshake.com», linkato il 5 gennaio 2015, ore 18.57.
[2] Ch. Baudelaire,
L'invitation au
voyage, in «Le
Présent»,
24
agosto
1857;
trad.
it.,
Id.,
Opere, a cura
di
G.
Raboni
e
G.
Montesano,
con
una
Introduzione
di
G.
Macchia,
Mondadori,
Milano
1996,
p.
411.
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